I trafficanti di questi viaggi sulle carrette del mare , chiedono migliaia di euro per metterti sul barcone. Conosco gente che ha venduto la propria casa e pagato nove mila euro per prendere posto su questi barconi della morte. Volevo invitare i miei fratelli al mio matrimonio, ma non è stato possibile. Ho fatto richiesta per fargli avere un visto turistico per trenta giorni. Ho fatto fidejussioni, ho pagato in anticipo i biglietti per i voli aereo, ho garantito a loro, come richiesto dalla ambasciata, una casa dove soggiornare e soldi a sufficienza per vivere in Italia tutto il periodo del visto. Niente da fare; il permesso non gliel’hanno dato e così, dopo la cerimonia, siamo andati noi in Etiopia. Siamo arrivati all’aeroporto di Addis Abeba e pagato normalmente il visto di ingresso per alcuni giorni al costo di cinquanta euro. Se richiedi il visto per un periodo più lungo di trenta giorni, costa cento euro e puoi stare in Etiopia fino ad un massimo di novanta giorni, rinnovabili. Ecco l’assurdità. Io da italiana posso andare in Etiopia quando voglio, mentre i miei fratelli non possono venire in Italia. E allora chi non si da per vinto scappa».
Ma c’è una soluzione a tutto questo?
«Se rilasciassero i visti regolarmente per venire in Italia, forse ci sarebbero meno imbarchi fuori legge».
Ma poi questa gente ritornerebbe in Etiopia?
«Sì il rischio è questo, che poi nessuno ritorna indietro. Ecco perché bisognerebbe aiutarli là. Bisogna insegnare loro un sistema di vita diverso, costruendo scuole e organizzando corsi di formazione. Bisogna eliminare il grande divario che c’è fra i poveri e i ricchi. Fra chi sta bene e chi vive nella miseria».
Come si trova a vivere in Italia? Un paese diciamo così; “ ricco”.
«A volte mi sento a disagio. Ho sposato un ragazzo albanese, che vive da sempre in Italia e per me è un italiano. Io mi sento assolutamente italiana. Poi mi rendo conto che qualcuno mi fa delle occhiate strane e mugugna quando ad esempio sono in coda in mezzo alla gente. E’ il colore della mia pelle a fare la differenza. L’altro giorno, una pattuglia della polizia, mi ha inseguito e fermata con la mia auto chiedendomi il passaporto. “Sono italiana ho detto a loro.” “E allora mi faccia vedere la carta d’identità”. Il mio cognome, che è quello della famiglia che mi ha adottata, è Aymet. Un nome strano per essere italiano e così i poliziotti non credevano alle mie dichiarazioni. “Mi faccia vedere il libretto della macchina… e chi è questo bambino… dove abita? Che lavoro fa?” Mille domande imbarazzanti e solo perché sono nera. Ma oramai ci sono abituata e sorrido di fronte a queste situazioni. Il mio pensiero va però a chi non riesce a sorridere e soffre per questa differenza.
Sogno di poter aiutare i miei fratelli a vivere meglio in Etiopia per non dover essere costretti a scappare. E l’aiuto migliore e concreto, non è certo donare loro un pesce da mangiare, bensì dare una canna da pesca per imparare a pescare».
Giancarlo Castellano, collaboratore di ECO RISVEGLIO