darioli giancarlo thSi parla così tanto di immigrati e profughi in questi giorni che a qualche anziano viene  in mente  vecchie storie di quando venivano chiamati: “internati”.

 Abbiamo incontrato il quasi novantenne Giancarlo Darioli, che nell’ottobre del 1944 dovette scappare  da Bognanco per rifugiarsi nella vicina e neutrale Svizzera. Questo il suo racconto:

“I tedeschi avevano riconquistato in forza  Domodossola e per la neonata  Repubblica dell’Ossola, non c’era più niente da fare. Tutti ci dicevano di scappare e così abbiamo raggiunto il Passo del Monscera  dove alcune guardie svizzere, ci hanno accompagnato giù a Gondo. Avevo 17 anni e per la prima volta ho saputo cosa voleva dire essere un “internato”.

Con i camion ci hanno portato a Briga e da qui, dopo averci lavato e spidocchiato, ci hanno divisi; i militari da una parte ed i civili dall’altra. Io sono finito a Lucerna in un albergo a tre piani. Al primo piano avevano sistemato le donne con i bambini, al secondo le donne ed al terzo gli uomini. Non si stava male anche se dormivamo sul pavimento e per materasso  avevamo del pagliericcio. Alle pulizie quotidiane ed al servizio di distribuzione dei pasti dovevano pensarci le persone che occupavano il piano ed io avevo il compito di servire i pasti agli uomini del terzo piano. Ricordo le colazioni con latte ed un pezzo di pane, a mezzogiorno patate o polenta e per cena  minestra e un pezzo di formaggio. Siamo stati lì quasi  tutto l’inverno ed in febbraio iniziarono a smistarci nei vari campi di lavoro. Io, insieme ad altri fui destinato in un paesino vicino a Sierre nel Canton Vallese a tagliare boschi e sistemare il terreno per ricavarne vigneti. La paga era di circa 30 centesimi di Franchi Svizzeri all’ora ed era proporzionata ai meriti di ognuno. Io ero un giovane  forte e volenteroso e la mia paga era una delle più alte. C’erano sempre alcune guardie a controllarci sia durante il lavoro, sia quando eravamo  a riposare, ma nel nostro campo filava tutto liscio; loro erano severi e noi ubbidienti ed ovviamente grandi  lavoratori. Rimasi lì fino a quando una famiglia del Canton Ticino mi prese per lavorare nei campi  vicino a Bellinzona. Seppur stavo bene e la paga era buona, avevo voglia di ritornare a casa. La guerra finì nell’aprile del 1945 ma purtroppo riuscì a ritornare in Italia solo a fine luglio. Raggiunsi velocemente  Como e da qui con mezzi di fortuna arrivai a Luino e poi traghettai a Intra dove mi incamminai in direzione di Gravellona e qui  trovai un passaggio sul cassone di un camioncino fino a Pallanzeno. Ormai mi sentivo a casa e senza chiedere altri passaggi, mi incamminai  felice verso  Domo  dove riabbracciai finalmente nella tarda serata   mia madre”.

Vi chiamavano Internati così come oggi chiamano immigrati le persone che arrivano in Italia; cosa pensa di questa gente che sbarca in Italia?

“Fanno bene ad accogliere ed ospitare quelli che provengono da situazioni di guerra o regimi  dittatoriali, però dovrebbero impiegarli in  lavori utili e sociali e non lasciarli a fare niente tutto il giorno nelle strutture come si vede in televisione e si legge sui giornali. Così non va bene. Né per noi, né per loro”.

Giancarlo Castellano, collaboratore di ECO RISVEGLIO

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