BOGNANCO

 

Giuseppe RovinaLa frazione del Moraso è immersa nel verde e sulla piazza una sola macchina. Mi guardo in giro e non vedo nessuno, salgo la stradina e raggiungo le poche case del borgo. Ad un certo punto sento qualcuno canticchiare; alzo lo sguardo e riconosco Giuseppe Rovina intento a sistemare la pila di legna.
«Buongiorno!»
«Bundì, cume mai da sti part?». ( Buongiorno, come mai da queste parti?)
«Volevo fare due parole con lei».
«Cum mi?» (Con me?)


«Sì, con lei e visto che sta lavorando, prometto che non le porterò via troppo tempo».
Lascia cadere il pezzo di legno che teneva in mano e mi invita a bere un caffè dentro casa.
La cucina è modesta ed accogliente, con  la stufa  a legna ancora tiepida dalla prima fiammata del mattino. Il fornello del gas, dei mobiletti, la credenza, il tavolo e quattro sedie. Giuseppe, classe 1928, magrolino ed arzillo, dopo aver sistemato la caffettiera sul fornello, si allunga dietro la mia sedia per recuperare le tazzine e lo zucchero e quindi si siede di fronte a me sorridendo e mi rendo conto che devo iniziare io a parlare.
«Mi racconti un po’ di quando era ragazzo. Dove abitavate? Cosa facevate?»
«Abitavamo a Bacinasco, io, con i miei quattro fratelli ed i genitori. Eravamo tutti impegnati nell’agricoltura. Avevamo 6 mucche, qualche capra, il maiale, galline e conigli. In aprile, via la neve, andavamo all’Alpe Vercengio ed in giugno salivamo a Ciuppinella fino al 14 settembre, giorno in cui scendevamo nuovamente a Vercengio, dove ci stavamo fino ai primi di novembre e poi giù a Bacinasco per passare l’inverno».
«Giuseppe! Il caffè!»
«Uh…già ul café».
«Grazie»
«Pena ad grapa?» (Un po’ di grappa˚)
«No grazie, va bene così».
«Mi a meti sempar un tuchet ad bur…» (Io metto sempre un pezzetto di burro…)
«Uh… si grazie,  un pezzetto di burro anche a me ».
Mescolo e sorseggio il caffè e Giuseppe prosegue nel racconto…
«Ogni anno la stessa storia e da questa attività ci ricavavamo il necessario per vivere. Io andavo tutte le settimane al mercato di Domodossola, per vendere formaggio e burro. Da questa vendita ci ricavavo i soldi per comperare polenta, pasta, vino, sale, zucchero e poche altre cose. Coltivavamo nei campi patate e segale, alternando il tipo di coltura ogni anno e con la segale, facevamo il pane nero che noi chiamavamo “pan biava”. Tutti portavano la segale al mulino e tutti facevano il pane. Le pagnotte – circa 30/40 kg di pane ogni volta -  le
mettevamo in un locale asciutto, sopra una grata di legno, lontano dai topi ed al bisogno le prendevamo. Diventava secco il pane, ma era sempre buono. Lo tagliavamo con il
“taipan” (asse in legno con ancorato ad una estremità una lama affilata) e per mangiarlo lo immergevamo nel latte o nella minestra, così diventava morbido».
«Cosa altro mangiavate?»
Prima dell’inverno, si uccideva quasi sempre una capra e per conservarla, la “salavamo”».
«Come?»
«Si tagliavano dei pezzi e li mettevamo dentro una botte di legno. Uno strato di carne e sopra sale, pepe e foglie aromatiche e poi ancora carne e così via, fino all’orlo e poi si copriva tutto con uno straccio  e si lasciava  macerare per otto giorni».
« E dopo?»
«Appendevamo i pezzi di carne  in luogo asciutto per qualche settimana e poi li mettevamo nelle cantine con soffitto a volta e li, appesi,  si conservavano. Ma non era solo questa la carne che mangiavamo; anche pecore, maiale, galline, conigli. E quando era il tempo di castagne le mettevamo a seccare e poi le battevamo per togliere la buccia. Le facevamo bollire  insieme ad un salamino o un pezzo di lardo. A me piaceva mangiarle con  “ul lacc da bur” (latte dopo aver ricavato il burro). Raccoglievamo le castagne, facendo cadere tutti  i
ricci dalle piante  (a scova) e formavamo a terra la “riscera” (un mucchio di ricci) e man mano che questi si aprivano, le castagne uscivano fuori. Quelle che mettevamo in cantina le facevamo cuocere in “brascariola” e le mangiavamo con  “ul srasc” (ricotta  con sale e pepe) o “mascarpign” (la stessa ricotta, ma affumicata). Quando mi sono sposato, nell’aprile del 1955, io e Maria, siamo venuti qui al Moraso ad abitare ed abbiamo iniziato la stessa vita di campagna dei nostri genitori. Mi ricordo  che avevamo 9 mucche, però purtroppo, dopo
qualche anno, ho dovuto andare a lavorare, perché, la vita di campagna,  non era più sufficiente per vivere. I tempi cambiavano, ma abbiamo sempre tenuto due o tre mucche ed anche adesso tengo  un paio di mucche da “sciaverna” (tenere bestiame nel periodo invernale alla pari; ovvero in cambio del latte, formaggio e burro, gli si da da mangiare). Non vado al bar e così mi tengo impegnato ed alla sera spesso mi siedo fuori casa a guardare le montagne».
« E cosa vede?»
«Vedo il costone dell’Alpe Dente che percorrevo di giorno e di notte per andare a trovare la morosa e vedo il bosco che avanza sempre di più perché non c’è più nessuno che taglia i prati, ma il mio cuore è sereno e mi adeguo alle cose che cambiano».

 

Giancarlo Castellano, collaboratore di ECO RISVEGLIO

Mappe dei sentieri

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